Si dice che se punti alla luna e cadi, ti sarai comunque fatto un giro tra le stelle. Baby K nel suo nuovo album “Donna sulla luna”, pubblicato venerdì scorso, esordisce dicendo di voler puntare proprio alle stelle per arrivare più su: “Dove può arrivare una donna se punta alle stelle? Sulla luna”. Ambizione e sicurezza di sé.
Eppure la classifica FIMI dei dischi più venduti in Italia dice che “Donna sulla luna” è entrato solo al 23esimo posto. Nonostante la tracklist veda la presenza – oltre al fresco di uscita “Mohicani” con i Boomdabash – di tutti i singoli sfornati negli ultimi anni (“Buenos Aires”, “Playa”, “Non mi basta più” e “Pa ti”) che macinano ancora ascolti validi per la suddetta classifica. E nonostante le vendite già di per sé molto basse e che nel periodo estivo diminuiscono ancora di più; e infatti, nelle scorse settimane, artisti con molta meno visibilità di lei (vedi Cosmo, Iosonouncane, Nomadi, e persino Neffa con la riedizione in vinile di un album di 25 anni fa) sono riusciti a entrare facilmente in Top10.
Insomma, non diciamo che il disco di Baby K le stelle non le vedrà neanche con il cannocchiale. No, il disco di Baby K non ha raggiunto nemmeno il terrazzo dove poterlo posizionare, il cannocchiale. Un risultato disastroso ma non del tutto inaspettato. Perché?
Perché Baby K è l’emblema di cosa è diventato oggi il mercato musicale italiano: un fast-food. Un disco dura il tempo di un solo singolo estratto, e poi viene subito abbandonato in favore di brani inediti e “sciolti”. Non si guarda più alla costruzione di un progetto: il focus è tutto sul motivetto, sul consumo facile del prodotto, sulla singola canzone. Che non deve durare più di due o tre mesi perché poi bisogna lanciarne subito un’altra. L’attenzione è così solo verso l’ascoltatore passivo, il palato meno pretenzioso, che canticchia “Ti ho in testa come Pantène” senza provare neanche un minimo senso di vergogna, e che pensa che il valore di un brano non sia dato dal contenuto ma da quanto passa in radio o è in copertina su Spotify.
Baby K è perfetta per questa strategia: lei, ex rapper cresciuta in Inghilterra e formatasi alla “Harrow School of Young Musicians” di Londra, ha abbandonato le sue peculiarità in cambio di un prodotto “di plastica”, usa e getta, che non dura nel tempo perché non ha neanche la pretesa di farlo.
Cosa rimarrà quindi di lei tra qualche anno? Da una parte i dischi di platino per sopravvivere alle annate e non rischiare di essere sostituita, dall’altra l’aver fatto leva sulla distrazione degli ascoltatori raggiunti per sfinimento. Ma che non si sono mai interessati né affezionati a lei.