Ruvidezza e intimità: Fabrizio Moro fa incontrare le sue due anime ne “La mia voce”, ep di sole sei canzoni che risulta però più che mai esaustivo nel fotografare il suo presente e il suo passato.
Ci sono tutti gli elementi della sua poetica che si muovono con uguale efficacia tra brani rock ed altri più lenti, c’è la dolcezza delle ballad che tanta fortuna gli hanno portato negli ultimi anni ma anche la rabbia sociale dei tempi di “Pensa”: un vero e proprio biglietto da visita sulla sua carriera. Chi lo ascolta per la prima volta sarà curioso di conoscere i vecchi lavori, chi lo ha sempre ascoltato lo apprezzerà per la sua onestà.
È un progetto nato dall’incertezza degli ultimi due anni condizionati dalla pandemia, che nella title-track Moro riesce a raccontare come nessuno ha fatto prima.
C’è tutto: l’apatia iniziale (“Non voglio credere che il tempo esiste solamente sai per invecchiare“), il terrorismo mediatico subito (“Non voglio credere alla voce di un telegiornale“), una politica che, invece di diminuirli, ha aumentato i punti interrogativi e ha spesso abusato di potere (“Il potere logora chi non ce l’ha, ma anche chi ne abusa senza onestà), la privazione della libertà (“Sei un uomo libero, credici […] ci fanno credere che non puoi crederci“) e la voglia di ribellione (“È corretto avere un’opinione, ma per farla rispettare a volte serve un bastone“).
Il suono è ruvido, spigoloso, e il quadro sembrerebbe di totale disillusione; invece il cantautore romano prova a darci la soluzione per sopravvivere alla precarietà del periodo: non abbandonare mai la nostra voce interiore, tirar fuori la nostra individualità anche quando le risposte non ci sono (“La mia voce è più forte dell’identità di un’epoca in cui abbiamo scelto di non viverci“).
Reduce dal successo sanremese (“Premio Bardotti” assegnato per il miglior testo del Festival), “Sei tu” ci trasporta invece in atmosfere intime e delicate: è l’amore come gratitudine, come salvezza, come ringraziamento nei confronti di chi l’ha allontanato dai mostri della depressione.
Moro si rivolge alla compagna e ai figli, che sono risposta ai tanti punti interrogativi (“Hai sconfitto i miei dubbi quando io mi ero arreso“) e scintilla dei suoi pensieri (“Sei tu che dai origine a quello che penso“); “Ho sempre una fotografia davanti a me – ha raccontato nella conferenza stampa di presentazione dell’album – quando parlo di questa cosa: mi piace sedermi a capotavola e mi dà forza. Quando sono salito sul palco dell’Ariston ho pensato a questa immagine: sono un padre e sono il capo di una famiglia. Devo cantare bene!“.
Un brano che spezza quindi la rabbia del precedente ma che è comunque in continuità con l’incertezza da cui il tutto ha avuto origine.
E figlie dell’angoscia sono anche le successive “Le cose che hai da dire” e “Continuare a cercare”: la prima continua sul filotto dell’intimità ed è una storia di incomunicabilità che molte coppie si sono trovate a vivere in questi ultimi due anni, con prima la noia dettata dall’abitudine (“E tu parli di cose che so già“) e poi il rimpianto e l’ammissione di colpa per qualcosa che è finito (“E ora che sei lontana, le avrei ascoltate senza interferire le cose che hai da dire“); con la seconda si torna invece al rock e si invita a trovare sempre obiettivi nuovi e un motivo anche quando le cose non girano bene (“Bisogna sempre trovare qualcosa, trovare nel buio di una stanza chiusa l’unica parte che sia luminosa“).
Con “Oggi” Moro torna invece a riaprire la finestra su sè stesso e riflette anche sul suo mestiere (“Potevo aprire un negozio di scarpe invece di cantare, oggi avrei meno affanno“) dopo il lungo periodo senza concerti che ha causato problemi di ispirazione a chi, come lui, la trovava sul palco; la salvezza l’ha trovata e cercata anche qui nell’amore, come sinonimo di fuga: “Poi vedo te, te che mi porti altrove“.
“Era bello” chiude il disco e canta un amore finito in una ballad che ha la concretezza e lo struggente crescendo che contraddistinguono il cantautore romano.
“La mia voce” è quindi un disco onesto e coerente dove Moro si apre forse come mai aveva fatto prima d’ora e dimostra di essere un poeta contemporaneo che non è per tutti, ma solo per chi con la musica sente ancora il bisogno di emozionarsi e di riflettere. Non cerca nuove soluzioni – non ne ha bisogno perché funziona già così e la sua personalità è talmente spiccata che si fatica ad immaginarla in altri mondi magari più radiofonici – però, allo stesso tempo, non si culla solo nella comfort-zone delle ballatone che gli hanno permesso di far crescere il suo pubblico. C’è infatti l’occhio sempre rivolto alla società, con il coraggio di chi non ha paura di risultare divisivo, controcorrente o di ricevere appellativi scomodi (per il testo della title-track qualcuno l’ha accusato di strizzare l’occhio ai no-vax nonostante lui si sia vaccinato). E così, in un mondo di apparenze, lui fa vincere sempre la verità.
Nick Tara