Nella musica si parla sempre meno d’amore. A parte infatti i nomi più tradizionali, è difficile trovare un giovane artista che oggi ne faccia una peculiarità della propria poetica. E anche quando l’argomento viene affrontato, si cerca di guardarlo comunque con un certo distacco, entrando poco in profondità ed evitando elementi che lascino troppo spazio al sogno, all’immaginazione, alla curiosità.
Pensate ad esempio al mondo indie che si è portato dietro tutto un carico di testi spesso sciatti, superficiali, sempliciotti, fatti di immagini quotidiane molto basic, citazioni basse, slang cittadini e metafore no-sense.
Prendiamo uno dei big del genere, Calcutta: qualcuno ha mai capito che diamine significa “il duomo di Milano è un paracetamolo sempre pronto per le tue tonsille” in una canzone che dovrebbe raccontare un innamoramento?
Ma pensate anche al mondo urban: Blanco, poco prima di vincere Sanremo in coppia con Mahmood, ha pubblicato un singolo – “Finchè non mi seppelliscono” – descritto come un “grido d’amore”. Il testo? Strofe che utilizzano immagini statiche, senza alcun tipo di trasporto (“E faccio ‘Ah’ mentre ti stropicci gli occhi, e faccio ‘Ah’ mentre gesticoli ancora“) e un ritornello (“Anche se prendessi un ergastolo sto con te, finché non mi seppelliscono sto con te, voglio viver sempre il brivido di star con te“) sicuramente funzionale e martellante per la generazione a cui si rivolge, ma che in realtà dice poco o nulla dell’anima e dell’identità dell’autore nonostante la continua ripetizione. Avrebbe potuto scriverli chiunque quei versi.
I cantautori del passato si denudavano parlando d’amore, aprivano una finestra sulla loro anima, non c’era più alcun filtro tra loro e l’ascoltatore; questi sono invece testi che evitano minuziosamente ogni parola che susciti un’emozione, ogni immagine che possa essere anche lontanamente evocativa, ogni accostamento che lasci spazio al sogno. Deve essere tutto immediato e di facile presa. Sono come algoritmi: freddi, distaccati, inespressivi.
Non è un caso che se ci chiediamo quale tra i cantautori della nuova generazione può rimanere anche tra 50 anni, l’unico nome che ci viene in mente è quello di Ultimo. Perché l’unico a seguire fedelmente la strada tracciata dai nostri maestri.
Strada che non hanno mai abbandonato i Modà. Tutta questa premessa per arrivare proprio qui, perché ieri è uscito il loro nuovo singolo “In tutto l’universo” – meravigliosa dedica d’amore del frontman Kekko Silvestre alla moglie Laura, sposata la scorsa estate dopo più di 20 anni d’amore – e potrebbe fungere da guida per i più giovani su come trattare l’argomento. Ci sono infatti tutti gli ingredienti che servono per scrivere una canzone d’amore che possa diventare immortale: ricerca poetica, metafore efficaci e originali, autenticità, pathos. Uno di quei brani universali, che lasciano sempre qualcosa a prescindere dal gusto personale.
Subito fortissima una delle prime immagini, con gli “occhi sognanti come curve di un ponte” di lei che si oppongono ai “pensieri pesanti di un guerriero silente” di lui, con cui fa evidentemente riferimento al periodo di difficoltà vissuto negli ultimi anni e raccontato in alcune interviste. Ma è tutto un susseguirsi di soluzioni che denotano grande ispirazione, candore poetico e stato di grazia compositivo, ne scegliamo altre tre: “Sei tutta la fede che serve a chi cerca il coraggio poco prima di un salto con gli occhi socchiusi dal punto più alto“, “Il deserto con solo te in mezzo diventa un concerto, il mio posto nel mondo“, “La fortuna di farmi sentire il tuo incastro perfetto ogni volta che stringo il tuo corpo e mi sento qualcuno nel mondo“.
L’amore qui non è solo fotografia sul quotidiano ma riesce nell’impresa di elevare l’ascoltatore al sogno: alla fine del brano arrivi a desiderarlo un rapporto così, ti trovi quasi a invidiarlo per la sua risolutezza. Loro due li vedi come due supereroi che, in un mondo contraddistinto dalla velocità, sono riusciti a non mutare mai il loro sentimento anche dopo tanti anni insieme.
Il video aiuta il racconto con lo scorrere dei momenti più belli della loro storia: dai primi attimi fino alla coda finale con la figlia Gioia e il matrimonio della scorsa estate, in uno scatto che vediamo per la prima volta.
Kekko racconta infatti un amore mai dato in pasto ai social, anche questa una rarità al giorno d’oggi. È un rapporto che non ha mai avuto bisogno di apparire per considerarsi forte e quindi un brano così, se nasce dalla penna di chi ha sempre voluto nascondere la propria vita privata, non può che risultare un gioiello in grado di accecare.
Resta solo un piccolo appunto da fare, se proprio vogliamo contestare qualcosa: una canzone del genere avrebbe meritato di essere presentata a Sanremo, anche se comprendiamo la visione di Kekko nel considerarlo “un tritacarne”.
Perfetta in toto per quel palco: un racconto che avrebbe da una parte fatto immedesimare tante coppie e dall’altro dato speranza ad altre, una melodia ariosa e d’altri tempi che con l’orchestra avrebbe fatto un figurone, un’interpretazione di Kekko dolce, quasi fanciullesca, che avrebbe mostrato sfumature vocali diverse rispetto alla consueta potenza di cui i Modà hanno fatto un marchio.
Resta solo da capire se chi gestisce ora il Festival, riempiendolo di proposte non degne, si sarebbe meritato in gara la dedica d’amore più bella degli ultimi anni. Forse no.
Nick Tara